«Aeschlimann vuole uccidere tutti i vecchietti!»
Avevo già messo in conto che parlare di cultura della morte – un tema politico scomodo, scomodissimo specialmente in un Cantone di tradizione cattolica – non mi avrebbe portato una valanga di consensi. Eppure, nel dibattito televisivo in cui ho cercato di tematizzare la questione, la reazione di uno degli altri partecipanti ha superato in violenza tutto ciò che mi ero immaginato.
Proprio perché la TV non è il luogo ideale per parlare in modo articolato di un tema del genere, mi è sembrato utile tornarci sopra in forma scritta, così da avere l’occasione di elencare le ragioni per cui la nostra società – volente o nolente – deve occuparsi con una certa urgenza del tema della morte.
Il mio intervento si inseriva in una discussione sui costi della sanità. Come gran parte dei candidati moderati, la mia posizione è che (fra le altre cose) dobbiamo impegnarci a combattere gli sprechi. A differenza degli altri, però, ho avuto il coraggio di mettere sul tavolo un tema oggi considerato politicamente radioattivo – il fatto che, se davvero vogliamo parlare di sprechi, dobbiamo parlare di quelli enormi che sono legati alla gestione medica del «fine vita».
Le cifre sono a disposizione di chiunque sia disposto a leggerle, e non ammettono obiezioni. Del resto, ognuno di noi ha vissuto personalmente o conosce situazioni di persone che – a poche settimane o addirittura pochi giorni dalla morte – si sono viste proporre trattamenti medici palesemente inutili, non di rado costosissimi.
Trattamenti che poi, spesso, finiscono per essere somministrati. Questo accade un po’ per la naturale stanchezza emotiva dei familiari dei pazienti, un po’ perché nessuno osa opporsi a quello che sembra «un ultimo tentativo», un po’ perché tanto è tutto gratis (grazie al sistema delle franchigie) – e un po’ per fiducia (o timore) verso i medici, che da parte loro sono incentivati dal sistema a fatturare il più possibile… finché morte non ci separi.
È ovvio che in un breve articolo non posso affrontare l’enorme complessità di questo argomento. Posso però dire quale è il primo passo da compiere per spezzare questo circolo vizioso, apparentemente senza uscita: dobbiamo recuperare un rapporto più sano con l’idea che ognuno di noi è destinato a morire.
La pandemia ci ha mostrato benissimo quanto la nostra mancanza di cultura della morte ci renda impreparati al più naturale degli eventi – e come morire sia diventato uno scandalo, un evento inaccettabile, verso il quale purtroppo oggi siamo abituati a dirigerci in uno stato di assoluto terrore. Non si tratta di perdere tempo su questioni astratte, ma di rendersi conto che i nostri principi esistenziali producono decisioni politiche che hanno conseguenze nel mondo reale.
Nel nostro caso, per tornare alla questione dei costi della salute, l’assenza di una cultura della morte ci porta a pretendere, o ad accettare, una quantità enorme di trattamenti superflui – invece di affidarci alle cure palliative, che oggi sono in grado di alleviare qualsiasi sofferenza fisica e offrono così ai pazienti e ai loro cari il tempo di congedarsi dalla vita in modo dignitoso.
Per concludere confermo che sì, vorrei davvero sentire parlare più spesso di morte in politica: non perché non ami vivere o perché io voglia accorciare l’esistenza a qualcuno, ma perché parlarne è l’unico modo per organizzare le nostre scelte in modo da onorare al meglio la vita che ci è stata data – e per non vivere nella paura, che fa di noi dei cadaveri molto prima di quando la morte fisica viene a bussare alla nostra porta.
Jean-Jacques Aeschlimann – candidato PLR al Consiglio di Stato